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L’anno della nuova Inghilterra

Stefano Olivari/ Lascia un commento/ 444/ 0

Il trionfo della nazionale inglese nel mondiale Under 17, strabattendo in finale la Spagna, chiude un anno che per il paese che ha inventato il calcio moderno è stato straordinario e non certo per merito dei suoi club che come miglior risultato in Champions League hanno avuto il quarto di finale del Leicester City. Club peraltro quasi totalmente privi di inglesi che facciano la differenza, non da oggi. Nel 2017 i giovani inglesi sono stati finalisti dell’Europeo Under 17 (sconfitti dalla Spagna ai rigori), vincitori del Mondiale Under 20, semifinalisti (con classica sconfitta ai rigori per opera della Germania) all’Europeo Under 21, vincitori dell’Europeo Under 19 e adesso hanno salutato l’anno con il Mondiale Under 17 che di tutte le manifestazioni è forse quella che più di tutte dà un’idea del talento: quasi nessuno dei partecipanti gioca infatti in prima squadra ed il fattore esperienza influisce meno che nelle categorie superiori.

Di certo il lancio di Rhian Brewster nel Liverpool vero sembra imminente: quanto ha fatto in India, soprattutto nelle partite decisive (in particolare la semifinale con il Brasile), è impressionante. E andando all’Under 20, la sua finale (con vittoria sul Venuezuela) di giugno era la prima in un torneo globale della nazionale inglese dal… 1966. Proprio dal Mondiale di Hurst, Moore e Charlton. Ma ad impressionare è stata soprattutto l’Under 17, forse perché l’ultima impressione è quella che conta o forse proprio perché ha i talenti più puri. Se Brewster è l’uomo copertina, straordinario è stato Phil Foden (centrocampista centrale, Manchester City) e di sicuro con un futuro ad alto livello è Jadon Sancho, attaccante esterno ora al Borussia Dortmund dopo una controversa vicenda (che poi sarebbe la solita, per i diciassettenni) con il Manchester City: non ha giocato la finale, ma ne risentiremo parlare.

Significativo che in finale fra i titolari ci fossero quattro ragazzi del Chelsea (Hudson-Odoi sembra già pronto, almeno come alternativa tattica), club che certo non punta sugli inglesi fatta eccezione per il trentunenne Cahill: in pratica disperso lo strapagato Drinkwater, Conte non sembra avere intenzione di lanciare giovani e lo stesso Chelsea a prescindere dall’allenatore preferisce darli in prestito (tipo Mason Mount al Vitesse) ed usarli come merce di scambio che davvero utilizzarli in campo. Chiaramente oltre ai record (solo il Brasile 2003 ha vinto nello stesso anno i Mondiali Under 20 e Under 17) contano le prospettive e l’orizzonte di questa generazione è il Mondiale del 2022. Ma la storia del calcio è piena di generazioni dorate che il Mondiale vero l’hanno fallito e in certi casi neppure ci sono andate, quindi mettiamo tutto in prospettiva.

La risposta al perché di questo boom forse risiede in un cambio di passo a livello centrale. Il programma cosiddetto di elite development, coordinato da Dan Ashworth, è partito esattamente 5 anni fa, e si basa su una filosofia così vecchia da sembrare nuova, enunciata dallo stesso Ashworth e confermata dal c.t. dell’Under 20 Paul Simpson: al di là del talento, recuperare la tradizionale fisicità del calcio inglese e avere un’identità di gioco inglese, qualsiasi cosa voglia dire. Anche se da recuperare, e qui la strada è ancora lunga (gli under 21 inglesi hanno meno esperienza nei campionati maggiori anche rispetto agli omologhi italiani), sarebbe l’impiego in Premier League. Dove ci sono fuoriclasse stranieri, ma anche una classe media gonfiata soltanto ad uso di chi fa calciomercato.

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Scritto da Stefano Olivari

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